conversazione con Beppe Quaglia
L’etica artistica di Irene e Virginia nel progetto ha garantito la massima espressività delle persone e questo è stato possibile grazie al fatto che il potere dell’artista a mio avviso risiede al tempo stesso in una téchne ma anche in una prassi immateriale fatta di sguardi, linguaggi, azioni. A me sembra che un risultato importante, sia a livello di téchne che a livello di prassi, ora sia stato raggiunto; nel senso che si è riuscito a co-produrre una rappresentazione direi inedita che ha coinvolto persone che sono comprese – per un periodo della loro vita – in un limbo del “non-visto”, più che dell’invisibile. Loro ci sono, si muovono, le incontriamo senza mai riconoscerle.
Eppure quando l’arte entra nelle cornici sociali, è facile si possa manifestare anche il rischio di spettacolarizzazione, una sorta di messa in scena della marginalità, del fuori norma…
In cooperativa proponiamo la partecipazione a un progetto solo a persone in grado di mantenere un impegno ma anche sulla base dell’attitudine a partecipare a questa o quella esperienza artistica, dal teatro sociale alla fotografia, per non dire del cinema o dei reality televisivi. In questo caso però è avvenuto il contrario; infatti Irene e Virginia hanno adattato le loro pratiche al contesto e operato per permettere alle donne di Via Sidoli di esprimersi e prendere voce in modo individuale e molto consapevole. Si è generato così un rapporto polisemico, non deterministico. Il risultato infatti, non è solo la pubblicazione delle ‘santine’ o il calendario, i testi o il video. Il vero risultato è il processo innescato a partire da queste premesse di autodeterminazione. Ho invece l’impressione che talvolta, sebbene involontariamente, l’artista produca un suo proprio discorso che funziona attraverso l’interdizione delle forme di comunicazione – quindi di esistenza – dell’altro; un conto è raccontare la vita in strada degli homeless; un altro conto è raccontarli solo in questo modo.
Dunque a tuo avviso un progetto come homeless heroines è riuscito a trasformare, muovere, anche solo temporaneamente, la cornice di quelle dodici esistenze – ma anche le nostre – attraverso un processo lento e ancora in corso. Dopo quasi tre anni di lavoro, con tutte le situazioni che nei mesi sono cambiate davvero molto rispetto all’inizio, dal tuo punto di vista a che punto siamo del progetto?
Non è facile dare una risposta, sarà il procedere del tempo a definirlo con maggiore precisione. Di certo siamo a un bivio. Siamo al punto in cui le donne di via Sidoli – che ora siamo in grado di ascoltare e vedere tenendo presente anche i loro linguaggi, il loro lessico – potranno, se vogliono, far ricorso a questa esperienza. Se per loro questo percorso risulterà chiuso e in futuro non vi faranno più ricorso, vorrà dire che – per loro volontà – avranno rinunciato ad essere artiste-autrici, co-autrici. E qualcosa di analogo vale ovviamente anche per le artiste, perché se dopo questo percorso anche loro non avranno modificato qualcosa nelle loro pratiche e nelle loro metodologie; se questo non avverrà, vorrà dire che l’ascolto e l’osservazione non avranno lasciato traccia del processo fatto insieme. Credo in ogni caso che si sia raggiunto il punto in cui questa stessa esperienza possa aver davvero generato un cambiamento d’immaginari sia per le donne di via Sidoli che per le artiste e più in generale per tutti noi che vi abbiamo, con ruoli differenti, preso parte. homeless heroines fino ad ora è stata un’esperienza quasi privata, solo adesso stiamo iniziando a fissarla nella nostra memoria e in qualche modo renderla pubblica attraverso i racconti di ognuno. E così quei dodici racconti sono e saranno, ogni volta, una revisione, una sorta di processo e di rielaborazione.
Durante gli incontri di progettazione, hai più volte sollevato la questione del ‘potere’, del dare potere e voce. Cosa intendi esattamente quando usi questo termine in un contesto per persone senza dimora?
È così, homeless heroines è anche un discorso sul potere. Il potere di rendere manifesto, rendere pubblica la propria esistenza, a seguito di periodi durante i quali l’hai celata, o sei stata visibile e decifrabile come diversa. Non posso pensare che la facoltà di elaborare e di parlare appartenga solo agli operatori o tecnici del nostro settore, mi pare che questa volta il potere di parola lo abbiano preso davvero le donne raccontando le esistenze fragili ma anche attive e agite da forze inaspettate. Eppure nel lavoro sociale, spesso si continua a operare dentro una cornice impermeabile e con un dispositivo narrativo chiuso nel quale la letteratura di settore continua a proporre il più delle volte figure rigide e stereotipate. E così mi sono trovato spesso a interrogarmi su chi davvero potesse salvaguardare queste altre narrazioni. Non certo i subalterni, non certo i soggetti marginali o le persone considerate in una situazione di bisogno. Raramente i loro discorsi, per citare Foucault, si generano funzionando come veri. È come per tali espressione fosse, normativamente, necessaria una traduzione. Provo a spiegarmi meglio con un esempio. Il film Parasite, è piaciuto tanto alla critica quanto al pubblico. Ma a chi è piaciuto? A noi. Una buona parte delle persone reali che nel film vengono narrate (i parassiti dei parassiti) difficilmente lo vedranno, il loro commento semplicemente non è reso possibile e chissà se si riconoscerebbero in quelle immagini. Si piacerebbero? Io non credo. Il potere di raccontare, di rendere pubblico, non appartiene al tipo di persone co-protagoniste rappresentate nel film e questo a causa della loro interdizione dal linguaggio culturale ordinario. Le persone a margine detengono un lessico specifico, una grammatica e delle rappresentazioni che sono proprie di chi vive un’esperienza così radicale e che sono difficili da comprendere, cioè da integrare con le nostre lingue, quelle degli operatori, degli specialisti e degli artisti; tant’è che spesso non riusciamo, neanche noi che lavoriamo con loro, a oltrepassare i limiti imposti dal linguaggio dominante e normato. Coniugare arte e sociale dunque, per me vuol dire aprire una sfida sul modo con cui questi linguaggi emergono e riescono a costruire con l’altro (nel nostro caso le donne) il potere di rappresentare le singolarità con tutte le loro grammatiche e con i loro corpi. Divenire cioè co-autori e per opporsi in qualche modo a quella che si potrebbe definire una tecnica di controllo secondo la definizione di Michel Foucault: un processo progressivo di psicologizzazione e normalizzazione della nostra vita quotidiana. Questa forma di presa del potere è anche presente nella pratica di Irene e Virginia ma loro hanno scelto di arretrare per far spazio a una cornice, fisica e lessicale, non riconosciuta. Se l’artista non arretra e non lascia terreno all’altro, penso che l’esperienza culturale non possa che essere un fallimento. Puoi eseguire una meravigliosa opera d’arte che rimane chiusa nel dominio culturale di chi la produce e di chi la fruisce.
In qualità di rappresentante della cooperativa Valdocco, come vedi quello che sta accadendo e cosa comporterà questo rispetto agli obiettivi della cooperativa?
I servizi di contatto con le persone attraversano un processo di trasformazione sia organizzativa che, direi ontologica, anche prima dell’era Covid. Bisognerà capire se le istituzioni e le realtà che gestiscono (termine che detesto) azioni di organizzazione delle risposte saranno in grado d’immaginare modalità operative concrete nuove, che permettano di rifondare ambienti relazionali senza ricorrere ai modelli che hanno sempre implicato il contatto con il corpo e la prossimità sensoriale come unica cornice. Si tratta di adottare pratiche non di presenza (o in non presenza), di virtualizzare delle relazioni, pratiche per le quali non disponiamo ancora di idee scientificamente articolate. Finora ci si fa le ossa rendendo virtuale il corpo/relazione. Ma non è sufficiente. Il modo in cui metabolizzeremo quello che sta accadendo richiederà tempo e, per uno strano paradosso, forse cambierà meno la vita per le persone che sono già fringe, ai bordi, ai margini; cambierà di più per le persone alle quali la distanza ha imposto profondi cambiamenti nello stile di vita. Banalizzando: la quarantena ha cambiato di più il quotidiano di un universitario, di quanto abbia cambiato un giovane lavoratore edile costretto a lavorare in nero.
Questo è un momento storico nel quale viene messo a dura prova l’immaginario e le nostre priorità…
È di nuovo un discorso sul potere. C’è di nuovo la necessità storica di acquisire il potere di raccontarsi anche attraverso l’arte. In homeless heroines le donne di Via Sidoli non sono donne che vanno aiutate, salvate, protette. Sono invece loro stesse che salvano, aiutano, raccontano. Questo passaggio di identità è stato possibile anche perché praticato all’interno dell’ambito artistico. Di certo non potranno diventare influencer perché l’ordine del discorso è tale che non otterranno mai la legittimità per esserlo; anche se dovrebbero.
Giugno 2020 – Intervista a cura di Lisa Parola
Irene’s and Virginia’s artistic ethics in the project have guaranteed that people are as expressive as possible. This has been made possible thanks to the fact that, in my opinion, the power of the artist resides at the same time in a techne but also in an immaterial practice made up of looks, languages and actions. I think that we have achieved an important result, both in terms of techne and practice. We managed to co-produce an unprecedented representation that involved people who were included – for a period of their lives – in a limbo of the “unseen”, rather than the invisible. They are there, they move, we pass them without ever recognizing them.
Yet when art enters social settings, it is also easy to see the risk of spectacularization, a sort of staging of marginality, of the out-of-norm…
In our cooperative, we propose participation in a project only to people who can commit but also on the basis of the attitude to participate in an artistic experience, from social theater to photography, not to mention cinema or television realities. In this case, however, the opposite has happened; in fact Irene and Virginia have adapted their practices to the context and worked to allow the women of Via Sidoli to express themselves and take a voice in an individual and very conscious way. Thus a polysemous, non-deterministic relationship was formed. In fact, the result is not only the publication of the ‘saints’, the calendar, the texts or the video. The actual result is the process triggered by these premises of self-determination. On the other hand, I have the impression that sometimes the artist unintentionally produces his own narrative that works through the prohibition of the forms of communication – and therefore of existence – of the other. It is one thing to recount life on the street of homeless people, another thing is to talk about it only in this way.
So in your opinion, a project like homeless heroines has managed to transform, even temporarily, the framework of those twelve existences – but also ours – through a slow and still ongoing process. After almost three years of work, with so many situations that have really changed since the beginning, from your point of view, where are we on the project?
It is not easy to give an answer, only time will tell. We’re definitely at a crossroads. We are at the point where the women of Via Sidoli – who we are now able to listen to and see, keeping their own language and vocabulary in mind – will be able to make use of this experience, if they wish. If this path is closed for them and in the future they will no longer have access to it, it will mean that – of their own accord – they will have given up being artists-authors, co-authors. And something similar applies obviously also to the artists, because if after this journey they too have not changed anything in their practices and methodologies, if this does not happen, it means that the listening and observation have left no trace of the process done together. In any case, I believe that we have reached the point where this same experience may have really generated a change of imagination, both for the women of Via Sidoli and for the artists, and more generally for all of us who took part in it, with different roles. homeless heroines so far has been an almost private experience, we are just starting now to lock into our memory and somehow make it public through everyone’s stories. And so those twelve stories are and will be, every time, a review, a sort of process and reworking.
During design meetings, you have repeatedly raised the issue of ‘power’, giving power and voice. What exactly do you mean when you use this term in a homeless context?
That’s right, in my opinion homeless heroines talks about power. The power to express, to make public one’s existence. homeless heroines is also a story about power. The power to express, to make public one’s existence, following periods during which you concealed it, or you were visible and identifiable as different. I cannot think that the ability to process and speak belongs only to the operators or technicians in our sector, it seems to me that this time the power of speech has really been taken by the women, describing fragile lives but also active and driven by unexpected forces. Yet in social work, we often continue to operate within an impervious frame and with a closed narrative device in which most of the time the literature of the sector continues to propose rigid and stereotyped figures. And so I often found myself wondering about who could really safeguard these other narratives. Certainly not subordinates, certainly not marginal subjects or people considered in a situation of need. Their speeches, to quote Foucault, are rarely generated by functioning as true. It seems like a translation was – as a rule – necessary for such expressions. Let me explain myself better with an example. Both critics and the public really liked the movie Parasite. But who liked it? We liked it. A good part of the real people who are depicted in the film (the parasites of parasites) will hardly see it, their commentary is simply not made possible and who knows if they would recognize themselves in those images. Would they like it? I don’t think so. The power to recount, to make public, does not belong to the type of co-protagonists represented in the film and this is due to their prohibition from ordinary cultural language. The people on the margins have a specific vocabulary, grammar and representations that are typical of those who live such a radical experience and that are difficult to understand, that is to say to integrate with our languages, those of operators, specialists and artists; in fact, even we who work with them, often fail to exceed the limits imposed by the dominant and regulated language. Combining art and social contexts, therefore, to me means opening a challenge on the way in which these languages emerge and manage to build – together with the other (in our case women) – the power to represent the singularities with their specific grammars and bodies. That is to become co-authors and to oppose in some way what could be called a control technique as defined by Michel Foucault: a progressive process of psychologization and normalization of our daily life. This form of power is also present in the practice of Irene and Virginia but they have chosen to step back to make room for an unrecognized physical and lexical frame. If the artist does not step back and leave no ground to the other, I think that the cultural experience can only be a failure. You can perform a wonderful work of art that remains closed to the cultural domain of those who produce it and those who use it.
As a representative of the Valdocco Cooperative, how do you view what is happening and what will this mean in relation to the cooperative’s objectives?
The services that include contact with people were going through a process of transformation, both organizational and, I would say, ontological, even before the Covid era. It will be necessary to understand whether the institutions and the realities that manage (a term that I detest) organizing responses will be able to imagine new practical operating modalities, which could allow to re-establish relational environments without resorting to models that have always involved physical contact and sensory proximity as the only framework. It is a matter of adopting non-presence practices, virtualizing relationships, practices for which we do not yet have scientifically articulated ideas. So far, we are cutting our teeth by making the body/relationship virtual. But that’s not enough. It will take time to metabolize what is happening and, for a strange paradox, perhaps the life of people who are already on the fringes, on the edges, on the margins of society, will change less; it will change more for people who have been forced by distance to make profound lifestyle changes. Oversimplifying: quarantine has changed a college student’s daily life more than a young construction worker forced to work in the black economy.
This is a historic moment in which our imaginations and our priorities are put to the test…
It’s a talk about power again. There is once again the historical need to acquire the power to talk about oneself also through art. In homeless heroines, the women of Via Sidoli are not women who should be helped, saved, protected. Instead, they themselves save, help, recount. This change of identity was also possible because it was practiced within the artistic field. They will certainly not be able to become influencers because the context is such that they will never gain the legitimacy to be, even if they should.
June 2020 – Interview by Lisa Parola
Beppe Quaglia è Responsabile della Gestione della comunicazione esterna e dei servizi della Cooperativa Valdocco di Torino. Attiva da decenni, la cooperativa sociale di produzione lavoro senza fini di lucro è rivolta principalmente alla promozione, progettazione e gestione di servizi sociosanitari, educativi, animativi e culturali, finalizzati a prevenire e contenere i rischi e gli effetti dell’esclusione e del disagio sociale e opera in integrazione con altre cooperative, organizzazioni del volontariato, realtà dell’associazionismo, istituzioni pubbliche.
English
Beppe Quaglia is Head of Communications and Services Management of the Valdocco Cooperative in Turin, which plans and manages social, health, educational and cultural services, aimed at preventing and containing the risks and effects of social exclusion and discomfort, collaborating with other cooperatives, voluntary organizations, associations and public institutions.