conversazione con Annalisa Merlo

Volevo dare voce alle donne e anche a noi operatori. Perché questa casa è un luogo in cui si incrociano storie di vita  ma è un contesto anche non ordinario perché i processi di gestione di una struttura come via Sidoli prevedono regole specifiche. È una palestra in cui ci si allena per vivere poi fuori da qui.

 

Come nasce il tuo rapporto con il progetto homeless heroines? Da cosa è nata la necessità di utilizzare l’arte?

Il primo incontro sul progetto è stato alla fine del 2017. Io volevo organizzare qualcosa che potesse affiancare i report annuali e che sono prevalentemente quantitativi. Noi adesso siamo ormai all’undicesimo anno di gestione e le tabelle dei report mi sembravano davvero troppo riduttive per descrivere quello che effettivamente avviene in un luogo come questo. In me è sorta, oltre alla noia di compilare solo tabelle, anche  il desiderio di raccontare qualcosa in più, affiancando alle tabelle la voce delle persone che trascorrono pezzi importanti della loro vita. Tratti di vita fatti di relazioni, scambi, contaminazioni.

 

Com’è stata l’evoluzione del progetto dal tuo punto di vista? Quali sono stati i punti di difficoltà e quali gli aspetti che ti hanno sorpresa?

Beppe Quaglia mi ha presentato Virginia e Irene con l’idea d’identificare un tema e una metodologia di lavoro. Abbiamo lavora con un primo gruppo di donne e abbiamo cercato di capire insieme a loro che cosa si potesse realizzare, in che direzione andare, quali strumenti utilizzare. C’era l’idea di usare sia la fotografia che il teatro. La prima grande difficoltà era ovviamente quella legata al turnover delle donne che utilizzano il servizio ma la partecipazione non era obbligatoria, abbiamo semplicemente chiesto, a chi lo iniziava il percorso, di mantenere l’impegno. Alcune di loro però non se la sono sentita di proseguire, di ripercorrere momenti dolorosi della loro vita passata e di parlarne davanti ad altri. Il percorso effettivo è così iniziato nel 2018 quando abbiamo deciso di coinvolgere anche donne già indipendenti. Il gruppo era composto complessivamente da otto persone, alle quale se ne sono aggiunte altre. Sì è progressivamente definita l’idea di realizzare un calendario e si è definito il tema sul quale lavorare: le eroine. Il percorso prevedeva un incontro a settimana e si è costruito strada facendo. È stata la collaborazione tra di loro – le donne e le artiste – che ha permesso d’identificare l’eroina che ciascuna di loro poteva rappresentare. Siamo partite da un racconto di vita e dall’individuazione delle forze che in quel momento aveva utilizzato e dalle qualità che ognuna voleva attribuire a sé stessa. Abbiamo lavorato con persone che non sono abituate a utilizzare lo strumento dell’immaginazione, persone che vivono in una condizione di disagio e di totale dipendenza da altri. Per loro, individuare le forze e le capacità è stato uno sforzo grande, ancor più se si pensa che le persone che utilizzano questo tipo di Servizi tendono a rappresentarsi come dipendenti da altri: l’assistente sociale, gli educatori e le valutazioni che questi danno. È come se il loro futuro fosse sempre nelle mani di qualcun altro e questo toglie loro potere, proprio l’idea di empowerment rispetto alla propria vita. Questo atteggiamento allontana l’ autodeterminazione delle persone, privandosi della consapevolezza di sé rispetto a quelle che sono le proprie capacità e autolimitandosi in una quotidiana dimensione di assistenza. E questo annullamento accade perché il sistema assistenziale funziona ancora così. Ci si ritrova sempre un po’ in bilico tra la necessità di regole di convivenza che precludono la libertà personale e la necessità di sviluppare capacità di autonomia. Sembra un paradosso, ma per alcune di loro la libertà può diventare esplosiva; ricordiamoci che non si finisce quasi mai per strada per condizioni casuali di vita, ci sono alla base delle mancanze, tipicamente l’assenza di una rete sociale solida. In ogni caso credo che la parte più importante di questo progetto, anche con leggerezza, sia stata la possibilità di far rispecchiare queste donne – per un momento, per un gioco, per una fantasia – e come riflesso riceverne un’immagine di sé che raramente avevano visto e riconosciuto.

 

Prima accennavi alla relazione e alla contaminazione tra persone con esistenze complesse; a te cosa ha dato questa esperienza?

Lavoro con gli adulti in difficoltà dal 2001. Ho incrociato tante persone e ho dovuto sforzarmi di allontanarmi da quello che viene definito il ‘senso di onnipotenza degli operatori’. Ci si scontra con tali e tante fragilità e difficoltà che è impossibile farsi carico di tutte. Ciò che rimane, con esperienze come questa ma talvolta anche nella quotidianità, è la poesia di incontrare altre persone. È una cosa difficile da descrivere, è come fosse il privilegio unico e assoluto di toccare chi non tocca più nessuno. Incroci storie, e queste storie sono momenti, sono sguardi, è come se si andasse a cercare il bambino che erano. Dietro la fragilità incontri la persona. homeless heroines mi ha dato la possibilità di incontrare un po’ di più la vita di queste donne, mi ha offerto una possibilità di contaminazione. Se superi la fase nella quale ti sembra di essere invasa, la contaminazione diventa poi proprio il senso di questo lavoro. È una risonanza. Nelle pratiche quotidiane, il lavoro dell’operatore sociale, il lavoro di relazione, non ha molti strumenti oggettivi;  esistono però tentativi, sensazioni, intuizioni e capacità di mettersi in discussione così il contatto tra due persone riesce ad andare al di là del ruolo e attivare la relazione, la fiducia, la contaminazione reciproca. Io ti lascio qualcosa di me e tu mi lasci qualcosa di te. Per questo che volevo dare voce alle donne che abitano qui. Perché questo luogo risuona delle voci di tutte le donne che ci sono passate. E questa, per me, è poesia metropolitana. Una poesia leggera che lascia anche di spazi di nascondimento, momenti nei quali le persone possono decidere di non mostrare parti di sé. Il caposaldo valoriale del mio lavoro è quello di restituire alle persone la capacità di identificare le soluzioni migliori per i problemi che loro decidono di portare. Cerco di non dare consigli, piuttosto aiutare le persone a vedere le cose da più punti di vista per cercare di capire qual è una possibile soluzione alla difficoltà.

 

In questo percorso che è stato non facile, a tratti immagino anche conflittuale e doloroso… quando hai letto i testi poetici e sfogliato le immagini, che cosa hai visto?

Ho visto le eroine! Quei versi e quelle immagini hanno colto proprio l’aspetto più significativo e positivo delle persone. C’è una sorta d’orgoglio da parte mia nel vedere proprio quella parte positiva oggi. In qualche misura è un riscatto ed è una traccia che rimane qui, anche se sommersa da tutte le esigenze, le necessità, i travagli quotidiani. L’esperienza artistica è un’esperienza essenziale da portare e praticare sempre. 

 

Tutte le 110 donne che sono passate di qui hanno fatto esperienza di strada? Possiamo farne una breve descrizione?

Quasi tutte, sì. La maggior parte arriva da un’esperienza di dormitorio di bassa soglia, ma c’è poi una percentuale molto ridotta di persone che arrivano invece da casa e hanno avuto esperienze di violenza domestica e che vengono qui dopo un breve periodo in strutture dedicate a donne vittime. Da quando è stato aperto il servizio abbiamo accompagnato 110 donne nel loro percorso di stabilità abitativa. La maggioranza vengono qui vanno poi in una casa propria (di solito una casa popolare), ma ci sono anche altre che per problematiche e caratteristiche personali accedono invece a strutture più tutelanti, ad esempio quelle dell’area disabili. Qui le persone stanno per un periodo e poi vanno via, c’è un grande turnover ma l’obiettivo è: non più per strada. 

 

Giugno 2020 – Intervista a cura di Lisa Parola

I wanted to give a voice to women and also to us, the operators. Because this house is a place where life stories intersect but it is also an unusual context as the management processes of a facility such as Casa Sidoli have specific rules.  It’s a gym where you train to live in the outside world.

 

How did your relationship with the homeless heroines project come about? What gave rise to the need of using art?

The first meeting about the project was at the end of 2017. I wanted to organize something that could complement the annual reports that are mainly quantitative. We are now in the eleventh year of management and the tables in the reports seemed to be too reductive to describe what actually happens in a place like this. Bored of just compiling tables, I felt the desire to describe something more, adding the voice of the people who spend important parts of their lives here to the tables. Life experiences made up of relationships, exchanges and contaminations.

 

How has the project evolved from your point of view? What were the points of difficulty and what were the aspects that surprised you?

Beppe Quaglia introduced me to Virginia and Irene with the idea of identifying a theme and a working methodology. We worked with the first group of women and we tried to understand with them what could be achieved, in which direction to go, what tools to use. There was the idea of using both photography and theater. The first major difficulty was, of course, the turnover of women using the service. Participation was not compulsory: we simply asked those who started the process to maintain their commitment. Some of them, however, did not feel like continuing, retracing painful moments of their past lives and talking about them in front of others. The actual journey began in 2018 when we decided to involve women who were already independent. The group consisted of eight people in total, with others added afterwards. We gradually defined the idea of making a calendar and the theme to work on: heroines. The process involved one meeting a week and was built along the way. It was the collaboration between them – the women and the artists – that allowed us to identify the heroine that each of them could represent. We started from their life stories, identifying the forces that the women had used and the qualities that each one wanted to attribute to herself.  We have worked with people who are not used to using the tool of imagination, people who live in a state of discomfort and total dependence on others. For them, identifying strengths and abilities has taken a great effort, even more so if you think that the people who use this type of Service tend to represent themselves as dependent on others: social workers, social educators and the assessments they give. It is as if their futures were always in the hands of someone else and this takes away their power, precisely the idea of empowerment with respect to their life. This attitude moves people away from self-determination, depriving themselves of self-awareness in respect to their own abilities and limiting themselves to a daily support dimension. And this self-cancellation happens because the social assistance system still works like this. We are always trying to balance the need for coexistence rules that preclude personal freedom and the need to develop autonomy. It seems like a paradox, but for some of them freedom can become explosive. Let’s remember that you almost never end up on the streets due to random living conditions: at the root, there are deficiencies, typically the absence of a solid social network. In any case, I believe that the most important part of this project, even in a light way, was the opportunity to make these women see themselves from the outside – for a moment, for a game, for fantasy – and as a reflection, receive an image of themselves that they had rarely seen and recognized.

 

Earlier you mentioned the relationship and contamination between people with complex lives. What did this experience give you?

I have been working with adults in difficulty since 2001. I have met so many people and I have had to strive to move away from what is called the ‘sense of omnipotence of the operators’. We are confronted with so many fragilities and difficulties that it is impossible to take charge of them all. What remains, with experiences like this but sometimes even in everyday life, is the poetry of meeting other people. It is difficult to describe, it is as if it were a unique and absolute privilege of touching those who no longer touch anyone. You come into contact with stories, and these stories are moments, looks, it’s like you’re looking for the child they used to be. Behind the fragility you meet the person. homeless heroines gave me a chance to learn a little more about these women’s lives, giving me a chance of contamination. If you go beyond the phase in which you seem to be invaded, contamination then becomes the very meaning of this work. It is a resonance. In everyday practices, the work of the social worker, the relationship work, does not have many objective tools. However, there are attempts, feelings, intuitions and the ability to question yourself so that the contact between two people can go beyond the role and activate the relationship, the trust, the mutual contamination. I leave you something about me and you leave me something about you. That’s why I wanted to give voice to the women who live here. Because this place resonates with the voices of all the women who have been here. And this, to me, is metropolitan poetry. A light poem that also leaves spaces to hide, moments when people can decide not to show parts of themselves. The main value of my work is to give back the ability to identify the best solutions to the problems they decide to bring. I try not to give advice, but to help people see things from different points of view, trying to identify a possible solution for a specific difficulty.

 

In this journey that was not easy, I imagine sometimes also conflicting and painful… when you read the poetic texts and leafed through the images, what did you see?

I saw the heroines! Those verses and images captured precisely the most significant and positive aspect of people. There is a kind of pride on my part in seeing that very positive side today. To some extent it is a ransom and a mark that remains here, even if submerged by all the needs, necessities and daily troubles. Art is an essential experience to always carry and practice.

 

Have all the 110 women who have been here had street experience? Could you give us a brief description of them?

Almost all of them, yes. Most of them eventually go to their own house (usually a social house), but there are also others who, because of their personal problems and characteristics, have access to more protective facilities, such as those with disabilities. Since the service was opened, we have accompanied 110 women on their path to housing stability. Most of them eventually go to their own house (usually a social house), but there are also others who, because of their personal problems and characteristics, have access to more protective facilities, such as those in the disabled sector. People stay here for a while and then they leave, there’s a substantial turnover but the goal is: no longer on the streets. 

 

June 2020 – Interview by Lisa Parola

Annalisa Merlo, responsabile del Servizio per Casa Sidoli a Torino, struttura che accoglie donne adulte senza dimora all’interno di un progetto di stabilità abitativa, da modulare in base alle differenti caratteristiche personali. Casa Sidoli ha l’obiettivo di accompagnare le ospiti in un percorso volto a migliorare la loro situazione complessiva, soprattutto rispetto alla condizione di senza dimora, prevedendo soluzioni di stabilità abitativa, economica, sanitaria. Gli interventi attuati sono sempre concordati sia con la persona coinvolta nel progetto sia con il Servizio inviante, attraverso incontri periodici. 

 

English

Annalisa Merlo, Head of the Casa Sidoli Service (City of Turin), a facility that welcomes homeless adult women into a housing stability project, to be modulated according to different personal characteristics. Casa Sidoli aims to accompany guests on a journey aimed at improving their overall situation, especially with respect to homelessness, providing solutions for housing, economic and health stability. The interventions implemented are always agreed both with the person involved in the project and with the requesting Service, through periodic meetings.