conversazione con Cristina Avonto

Secondo i ricercatori della Feantsa (Federazione europea degli organismi nazionali che lavorano con persone senza dimora), i servizi in Europa sono ancora strutturati pensando a una persona quasi sempre uomo di mezza età  o anziano , risultando quindi inadeguati per le donne, le quali restano così il più delle volte escluse spesso da servizi di supporto e rimanendo invisibili nelle statistiche e di conseguenza non riconosciute dalle politiche. Quale è l’effettiva situazione attuale ed è ipotizzabile un futuro?

Diciamolo da subito, le donne senza dimora sono tra i gruppi più emarginati nella società e il loro numero è in crescita, soprattutto tra le giovani. Inoltre molte di loro sono “nascoste”, cioè non riconosciute dai servizi che tendono talvolta a ignorare il fenomeno ritenendolo ancora un problema prettamente maschile. Teniamo anche conto che nel pensiero comune, i senza dimora sono generalmente stigmatizzati e incolpati per la loro situazione; le donne lo sono ancor di più, un doppio stigma in quanto spesso oggetto di etichette – cattiva madre, prostituta sono le più frequenti-, aspetti  che rendono ancora più difficile una richiesta di aiuto e rappresentano spesso un ostacolo significativo per il recupero di una condizione già fragile. In molti casi, infatti, la paura di essere giudicate e non all’altezza delle aspettative della società rappresenta per le donne un motivo per non chiedere aiuto e rimanere nascoste.

 

Vista la natura del problema, i numeri non possono essere mai certi ma gli ultimi dati segnalano che le donne rappresentano il 14,3% del totale della popolazione senza dimora. E i numeri  sono ancora  in aumento (Istat/fio.PSD).  Possiamo fare un identikit del genere femminile nel panorama dei senza dimora? 

Le donne più giovani arrivano alla vita in strada a causa di rotture con la famiglia di origine, spesso dovute a problemi di dipendenza da droghe e alcool, abusi familiari e problematiche legate alla salute mentale. Invece le donne in fascia di età più elevata diventano senza dimora per la rottura del legame con la famiglia acquisita, con una precarietà lavorativa e fragilità delle competenze spendibili nel mondo del lavoro.  Per loro sorgono quotidianamente problematiche di sicurezza e incolumità. vi sono, poi, difficoltà igienicosanitarie specifiche della fisiologia delle donne. Bisogna considerare, peraltro, gli aspetti di stigmatizzazione. Le donne perdono l’autostima, sono etichettate come ‘cattive madri’ e ‘prostitute’. A fronte della peculiare condizione, i servizi specifici a loro dedicati sono pochi e non adeguati. E’ urgente – ancor più a fronte dell’emergenza Covid 19 –  avere servizi e progetti per supportare le donne, pensando che nella quasi totalità hanno subito violenze di differenti tipologie e comunque traumi. Come federazione stiamo promuovendo pratiche che allontanino la logica emergenziale, per orientarci invece verso azioni più concrete e incisive per l’uscita dalla condizione di homelessness, percorsi strutturati di reinserimento in casa e reinserimento sociale.

 

In questa fotografia, la cultura e l’arte possono avere un ruolo? Se sì quale?

Partiamo dalla lingua perché è un problema prima di tutto di grammatica. In italiano numerosi termini ed espressioni denotano gli homeless e la loro condizione di homelessness: persona senza dimora (quella più diffusa), senza fissa dimora, clochard, barbone, grave emarginazione adulta, povertà estrema, deprivazione materiale, vulnerabilità, esclusione sociale… Non si tratta di sinonimi, ma di termini ed espressioni che colgono ciascuna diversi aspetti di un fenomeno sociale molto complesso perché dinamico e multiforme che non si esaurisce mai alla sfera dei bisogni primari, ma investe l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, coinvolgendo anche il profilo relazionale, emotivo e affettivo. Con questa premessa credo allora che il diritto al bello inteso come strumento di conoscenza sia centrale. Se il processo homelessness disumanizza, questi percorsi invece riumanizzano e restituiscono la condizione umana alla persona. È insito nella natura umana sia l’autodeterminarsi che il prendersi cura di sé, per la donna questo è ancora più forte ed entra la questione della colpa perché non sei riuscita a mantenere il tuo status. Per le donne perdere la casa è un processo devastante. E per tornare alla domanda, l’arte come tutte le forme di cura introduce la possibilità che ci si risenta titolare anche alla bellezza e allo stare bene. Introduce il concedersi di riappropriarsi di un ulteriore diritto che è al pari della casa o della salute. Ovviamente bellezza intesa come ben essere, ben stare e in ogni caso creare movimento di sentimenti. Attivare la possibilità del sentimento e del sentire, in una fetta di popolazione nella quale il sentire è negato perché la sofferenza, a un certo punto, è troppo forte. 

 

Le esperienze dell’arte nell’ambito sociale sono processi delicati che possono dar voce a chi non ce l’ha, sono processi che non risolvono, piuttosto sollevano questioni complesse che possono portare anche il fallimento… vorrei confrontarmi con te su questi aspetti.

Personalmente io ho posto anche dei veti a dei progetti perché ritengo che sia necessario da parte degli artisti essere preparati e sapere di cosa si sta parlando. In ambiti complessi come quello dei senza dimora non puoi fare sperimentazione sociale proprio perché stai trattando dei soggetti fragili. Tutte le persone sono fragili e sappiamo bene che l’arte può aprire delle voragini e in questo caso chi è coinvolto si misura ancora di più con le sue difficoltà. Non tanto e non solo perché sono più fragili di me o te ma perché sono rese ancora più insicure dalla loro condizione cornice, dalla loro specifica condizione sociale. Nel prendere parte a un progetto culturale,  la persona che vive per strada deve poter fare un processo  di adesione individuale, per qualsiasi progetto: d’arte, di scrittura o altro. E sono solo le persone che hanno iniziato un percorso di accompagnamento, persone già un po’ più protette, che si possono permettere di più, di provare a sperimentarsi, mettersi in gioco attivando loro stesse gli strumenti adeguati per raccontarsi. Se noi, che viviamo in cornici più stabili, iniziassimo un coinvolgimento in un percorso d’arte, sceglieremmo noi stesse di farlo e di mettere la nostra persona in un contesto narrativo e immaginativo a volte non semplice da affrontare.

 

Giugno 2020 – intervista a cura di Lisa Parola

According to researchers from Feantsa (European Federation of National Organizations working with the Homeless), services in Europe are still structured to work mainly with middle-aged or elderly men, thus inadequate for women, who are often excluded from support services and remain invisible in statistics and therefore not recognized by policies. What is the actual situation today and is there any prospect of a future?

Let’s face it, homeless women are among the most marginalized groups in society and their number is growing, especially among young women. Moreover, many of them are “hidden”, i.e. not recognized by the services that sometimes tend to ignore the phenomenon, still considering it a purely male problem. It is also important to consider that homeless people are generally stigmatized and blamed for their situation. Women are even more so, a double stigma as they are often labelled bad mothers or prostitutes. These aspects make it even more difficult to ask for help and often represent a significant obstacle to the recovery of an already fragile condition. In many cases, in fact, the fear of being judged and not living up to society’s expectations is the reason women do not ask for help and remain hidden.

 

Given the nature of the problem, the numbers can never be certain but the latest data indicate that women account for 14.3% of the total homeless population. And the numbers are increasing (Istat/fio.PSD).  Can we make a profile of the female gender in the homeless landscape?

Younger women come to live on the streets because of breaking ties with their birth family, often due to drug and alcohol addiction problems, family abuse and problems related to mental health. On the other hand, older women become homeless due to breaking ties with their acquired family, precarious working conditions and fragile skills expendable in the workplace.  Safety and security issues arise for them on a daily basis. Furthermore, there are specific hygiene difficulties due to the physiology of women. Then, we must also consider stigmatization. Women lose their self-esteem, they’re labeled ‘bad mothers’ and ‘prostitutes’. Given the particular situation, the specific services dedicated to them are few and inadequate. It is urgent – even more so in the face of the Covid 19 emergency – to have services and projects to support women, thinking that almost all of them have suffered trauma and violence of different types. As a federation we are promoting practices that move away from the emergency logic, orienting our work towards more concrete and incisive actions to overcome the homelessnesscondition, structured processes of reintegration into the home and society.

 

Can culture and art play a role in this scenario? If so, which one?

Let’s start with the language as it is a grammar problem first of all. In Italian numerous terms and expressions denote homeless people and their homelessness: starting from the most widespread “homeless” (persona senza dimora, senza fissa dimora, barbone, clochard) to severe adult marginalization, extreme poverty, material deprivation, vulnerability, social exclusion… These are not synonyms, but terms and expressions that capture each different aspect of a very complex, dynamic and multiform social phenomenon that never ends in the sphere of primary needs, but involves the entire sphere of needs and expectations of the person, also involving the relational, emotional and emotional aspects.

With this in mind, I therefore believe that the right to beauty as an instrument of knowledge is pivotal. If the homelessness process dehumanizes, these paths instead re-humanize and give the human condition back to the person. Self-determination and self-care are inherent in human nature, for women this is even stronger and so the sense of guilt comes up because they failed to maintain their status. For women, losing their homes is a devastating process.

Coming back to the question, art just like all forms of care introduces the possibility that you feel entitled to beauty and well-being again. It allows the re-appropriation of an additional right that is equal to home or health. Obviously, beauty as in well-being and in any case creating a movement of feelings. To activate the possibility of feelings and emotions, in a portion of the population in which feeling is denied because the suffering, at a certain point, is too strong.

 

Art experiences in the social field are delicate processes that can give voice to those who do not have it, they are processes that do not solve, rather they raise complex issues that can also lead to failure… I would like to discuss these aspects.

Personally, I have also vetoed some projects because I believe that it is necessary for artists to be prepared and to know what they are talking about. In complex areas like homelessness, you can’t do social experimentation just because you’re dealing with fragile subjects. All people are fragile and we know that art can open emotional depths and in this case those involved measure themselves even more with their difficulties. Not only because they are more fragile than me or you, but because they are made even more insecure by their marginalization, by their specific social condition. 

When taking part in a cultural project, the person living on the streets must be able to undergo a process of individual acceptance, whether it is an art, writing or other kind of project. And it is only the people who have started a path of assistance, people who are already a little more protected, who can offer more, to try to experiment, to get involved by putting themselves out there by using the appropriate tools to tell their stories. If we, who live in more stable environments, started an inclusive art path, we would choose ourselves to participate and to put ourselves in a narrative and imaginative context, sometimes not easy to face.

 

June 2020 – Interview by Lisa Parola

Cristina Avonto è presidente della fio.PSD (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora), associazione nazionale che raggruppa enti pubblici e del privato sociale che si occupano di offrire servizi alle persone senza dimora. Gli ambiti nei quali la fio.PSD è impegnata si possono ricondurre a tre aree: la comprensione del fenomeno della grave emarginazione adulta; lo studio e la promozione di strategie e metodologie di intervento per contrastare la grave emarginazione adulta e la sensibilizzazione e la promozione dei diritti delle persone adulte gravemente emarginate. Nel 2014 la Federazione dà vita al network Housing First Italia con l’obiettivo di diffondere una nuova cultura per un abitare sociale, sostenibile e inclusivo rivolto a superare il problema dell’homelessness attraverso soluzioni innovative e sperimentali che utilizzano i principi dell’Housing First. Nel 2016 lancia #HomelessZero, una campagna di sensibilizzazione patrocinata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per la realizzazione di misure e interventi contenuti nelle Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia.

English

Cristina Avonto is President of fio.PSD (Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora, Italian Federation of Organisations for the Homeless), a national association that brings together public and private social bodies that provide services to homeless people. The areas in which the fio.PSD is committed can be traced back to three areas: understanding the phenomenon of severe adult marginalisation, studying and promoting strategies and intervention methodologies to combat severe adult marginalisation, and raising awareness and promoting the rights of severely marginalised adults. In 2014, the Federation created the Housing First Italia network with the aim of spreading a new culture for a sustainable, inclusive and social living aimed at overcoming the homelessness problem through innovative and experimental solutions that are based on the principles of Housing First. In 2016, the Federation launched #HomelessZero, an awareness raising campaign sponsored by the Ministry of Labour and Social Policies for the implementation of measures and interventions contained in the publication “Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia” (Guidelines for Combating Severe Adult Marginalisation in Italy).