conversazione con Giorgio de Finis
Da quando abbiamo presentato, lo scorso ottobre, homeless heroines al MACRO Asilo sembra essere passato più di un decennio, eppure quel progetto pare abbia acquisito oggi ancora più valore… le città, i corpi, l’idea di periferia, è come se tutto si stesse rovesciando un po’.
È vero. Le città sono state scelte e progettate come modello abitativo principalmente per gli scambi e la socialità. La città con noi tutti chiusi in casa senza poter uscire è davvero una contraddizione in termini, ancora di più se si pensa che dal 23 maggio 2007, il 50 per cento più uno di tutti gli umani vivono in aree urbanizzate. Eppure ora siamo tutti fermi, immobilizzati. Nel corso della storia si sono viste situazioni e malattie di certo molto più violente e gravi ma oggi, la prima volta, gli umani si sono fermati tutti, insieme. Quasi nello stesso momento. Eppure, e spero in modo consapevole, si sta parlando di ripartenza. Una situazione che ci metterà di fronte a una crisi ancora più grave, una crisi economica e culturale che immagino porterà con sé altre solitudini, depressioni, violenze di e su giovani, donne, uomini. Per la prima volta però ho capito, con chiarezza, la funzione delle pratiche culturali, parlo di funzione, non di missione. Una funzione urgente perché d’ora in poi, se vogliamo venirne fuori, avremo bisogno di nuovi paradigmi e nuovi immaginari. Non riesco a pensare a un orizzonte clinico, disegnato solo da mascherine. È come se quell’oggetto ci costringesse ancora di più a una forma d’isolamento.
È importante ora riattivare le passioni, non solo le produzioni. E in merito a queste riflessioni sei stato tu il primo ad ospitare homeless heroines in un contesto artistico e culturale, mi piacerebbe descrivessi la situazione romana dei senza fissa dimora.
Storicamente la situazione è molto complessa, in particolare a Roma. E non penso solo ai senza fissa dimora ma anche ai Rom, ai rifugiati, alle persone coinvolte nell’emergenza abitativa che qui è particolarmente evidente. Una pluralità di soggetti – in particolare quelli che partecipano alle lotte per la casa – che hanno dimostrato capacità di autorganizzazione anche in una situazione davvero drammatica. Aggravata di recente anche dal rifiuto della proposta in Senato di abolire l’art. 5, della legge Renzi-Lupi, che, come sai, nega la residenza a chi vive in spazi occupati e la residenza è necessaria per ricevere cure mediche, aiuti e sussidi. Qui come altrove, ormai da decenni, i più deboli non sono solo dimenticati, ma proprio non previsti.
Rimaniamo ancora su Roma e l’emergenza casa. Cosa è successo con la globalizzazione e cosa sta succedendo ora?
Roma si sta avvicinando a Mumbai, perché questa globalizzazione, tanto celebrata come l’abbattimento delle frontiere, produce una guerra permanente tra ricchi (sempre di meno e sempre più ricchi) e poveri (sempre di più e sempre più poveri) e nuovi muri. L’emergenza abitativa e il disagio sociale cui assistiamo oggi, non è lo stesso dei borghetti romani degli anni Cinquanta, dove una popolazione in difficoltà veniva pian piano riassorbita dall’economia e dalla città, trasformandosi da sottoproletariato a proletariato e forse anche in piccola borghesia. Oggi questo processo non è più pensabile, e non controllando il processo di finanziarizzazione degli immobili la città ha accettato un percorso di progressiva espulsione delle fasce deboli di contro a un’accumulazione di immobili disabitati ad uso della rendita di banche e finanziarie.
Questo stato ha dato forma a un’umanità sdraiata. I corpi quale ruolo hanno nelle tue pratiche e nelle tue ricerche? È evidente che in questo momento i corpi ci stanno arrivando addosso. Non ci è più permesso – e credo sarà peggio – provare a non vederli. Sono ovunque nelle strade come in mare.
Sono d’accordo, quello che descrivi in queste settimane ha acquisito particolare rilievo. La situazione che stiamo vivendo con le misure anti Covid-19 ci ha reso tutti “inabili alla socialità” privandoci dello stato di prossimità dei corpi alla quale eravamo abituati. Possiamo essere sani, asintomatici, ma siamo tuttavia tutti interessati da una condizione di inabilità che fino a poco tempo fa toccava solo deboli e malati. Ora questo stato – l’essere temporaneamente fuori gioco – è comune. Mi piacerebbe pensare che questo allontanamento – che non può che farci soffrire – ci permettesse di vedere la nostra quotidianità in altro modo. In questo momento siamo tutti perdenti.
Quando hai iniziato la programmazione del MACRO Asilo, anche in relazione a homeless heroines, hai pensato ai corpi?
Certo in più direzioni. Intanto l’idea è stata proprio quella di pensare uno spazio che accogliesse i corpi i e la loro relazione, mettendoli al centro. Un museo come spazio aperto capace di attivare tutti coloro che lo hanno attraversato, un dispositivo cittadino dove l’arte e la società potessero incontrarsi, confrontarsi, crescere e trasformarsi. Un museo ospitale nel quale ogni corpo e ciascuna identità avesse la possibilità di raccontarsi, uscendo da una situazione d’isolamento e debolezza.
Hai parlato di debolezza; il progetto ideato da Virginia Ruth Cerqua e Irene Pittatore prova a decostruire proprio quell’idea di debolezza imposta da un modello istituzionale arretrato ma ancora oggi presente che inserisce spesso ‘i deboli’ in un unico contesto esistenziale periferico. Una griglia rigida: o dentro o fuori. A questo proposito m’interessa confrontarmi con te sull’idea di periferia e perifericità. E per perifericità intendo pratiche che si sviluppano in modo non lineare, azioni e contesti non normati ma che possono innescare immaginari e modelli alternativi.
Periferia è una parola sulla quale mi sto interrogando da tempo, perché stiamo per inaugurare un progetto che ho voluto si chiamasse proprio “museo delle periferie”, pur sapendo che “periferia” è un termine complesso che va’ affrontato con cautela. Possiamo dire con certezza che Tor Bella Monaca a Roma, il quartiere che ospiterà il museo, è una periferia ma se proviamo a vedere che tipo di energie e immaginari riesce ad attivare la sua popolazione, potremmo anche sorprenderci e comprendere come quel modello abitativo – spazi, orari, socialità – non corrisponda alla definizione rigida e stereotipata di periferia cui avevamo inizialmente pensato. Esperienze come quella che abbiamo attivato a Metropoliz (1), un’idea di città meticcia, non priva di contraddizioni, ma attiva e immaginifica, hanno maggiori possibilità in “periferia”, ma possono parlare all’intera città e perfino, come è successo, divenire modello per i musei istituzionali e per una idea diversa di abitare la metropoli. Il Rif (così si chiamerà il museo delle periferie di Tor Bella Monaca) propone nel nome l’idea di una rifondazione della città, che allarghi il perimetro del solco tracciato da Romolo includendo anche alla progenie di Remo.
In questa marginalità che spazi ha l’immaginario?
Nei suoi studi Marc Augè ha sostituito la dicotomia “luoghi-non luoghi” con “mondo città-città mondo”, una definizione a mio avviso troppo duale, ma che ci ha ricordato che anche nel mondo globalizzato sono possibili crepe e vitalità. Abitare le crepe, le zone interstiziali, non è una scelta ideologica, ma pragmatica, è stare lì dove le cose nuove possono nascere, dove si può sperimentare qualcosa di inedito. Piccole nicchie ecologiche che riescono a proporre alternative alla monocultura.
Chi non ha un modello di vita non normato è sempre posato in uno stato di perifericità, a tuo avvio cosa sta accadendo in questi mondi?
Ancora una volta è importante ribadire che parlo di tutta una pluralità estesa di soggetti urbani non riconosciuti, messi a margine. Bene, per ritornare alla tua osservazione di prima, non riconosco questi come soggetti fragili. Certo, vivono una quotidiana fragilità economica ma allo stesso tempo non si sono arresi a quel mondo che li vorrebbe morti; Zygmunt Bauman li ha definiti ‘vite di scarto’: i senza fissa dimora, come gli uomini e le donne che muoiono nel Mediterraneo. Eppure alcune di queste esistenze riescono a ribellarsi e attivare forme di resistenza che non possono non presupporre la possibilità che si dia un mondo altro, immaginato ma anche praticato che è poi la cosa più difficile da fare. Sono situazioni che hanno dato forma a utopie concrete che non m’interessa mitizzare, ma comprendere in tutta la loro complessità. Proprio in queste complessità si sono costruiti spazi collettivi che, come Metropoliz o homeless heroines, hanno saputo anche ospitare l’arte. Dunque se cambiamo posizione questa debolezza è anche una energia, una vitalità, per quanto – in questo momento – affaticata, spesso sulla soglia minima della sopravvivenza.
In queste situazioni quale è il ruolo delle donne?
In queste pratiche le donne sono una potenza, sono donne che riescono a proporsi come insegnanti, attiviste politiche, in una serie di attività urgenti. Sono mediatrici, mamme, lavoratrici tutto insieme.
E quello dei giovani?
Non voglio che queste ti sembrassero domande banali, m’interessa capire quanto in uno stato di perifericità siano presenti pratiche trasformative e generative anche in relazione ai generi e alle generazioni. Le donne e i giovani sono figure forti, resistenti, hanno in sé una carica trasformativa. Dai bambini siamo partiti (la prima opera realizzata dal MAAM è stata la ludoteca, la “stanza dei giochi”), sapendo che rappresentano il futuro di Metropoliz.
Maggio 2020 – Intervista a cura di Lisa Parola
Since we presented homeless heroines at MACRO Asilo last October, more than a decade seems to have passed , and yet that project seems to have gained even more value today… cities, bodies, the idea of periphery, it’s like everything is turning a bit upside down.
That’s true. Cities have been chosen and designed as a housing model focused on exchanges and sociality. The city, with us all locked up at home without being able to get out, is really a contradiction in terms, even more so considering that since 23 May 2007 the absolute majority lives in urbanised areas. And yet now we’re all stationary, immobilized. Throughout history, mankind has certainly experienced much more violent and serious situations and diseases, but today, for the first time, humans have all stopped together. Almost at the same time. Yet, and I hope consciously, we are talking about restarting. A situation that will put us with an even more serious crisis, an economic and cultural crisis that I imagine will bring with it more loneliness, depression, violence by and against young people, women, men. For the first time, however, I clearly understand the purpose of cultural practices. I am talking about purpose, not mission. An urgent mission, because from now on, if we want to get out of it, we will need new paradigms and new scenarios. I can’t think of a definite horizon designed only by masks. It’s like it is forcing us further into a form of isolation. It is important now to reactivate passions, not just productions. With regard to these observations, you were the first to host homeless heroines in an artistic and cultural context.
Could you please describe the homeless situation in Rome?
Historically, the situation is very complex, particularly in Rome. I am not just talking about the homeless, but also about the gypsies, refugees and people involved in the housing emergency, which is particularly evident here. A plurality of subjects who – particularly those involved in the struggles for housing – have demonstrated their capacity for self-organization even in a truly dramatic situation. A situation recently aggravated by the rejection of the Senate proposal to abolish Article 5 of the Renzi-Lupi law, which, as you know, denies residency to those living in occupied spaces, and residency is necessary to receive medical care, aid and benefits. Like elsewhere, for decades now, the weakest have not only been forgotten, but completely unforeseen.
Let’s keep talking about Rome and the housing emergency. What happened with globalisation and what is happening now?
Rome is becoming like Mumbai, because this globalisation, much celebrated as a removal of borders, produces a permanent war between the rich (fewer and fewer, richer and richer) and the poor (more and more, poorer and poorer), and new walls. The housing emergency and social hardship we are witnessing today are not the same as the Roman suburbs of the 1950s, where a population in difficulty was gradually absorbed by the economy and the city, transforming itself from subproletariat to proletariat and perhaps even into a lower middle-class. Today this process is no longer conceivable, and by not checking the process of real estate financialization, the city has accepted a path of progressive expulsion of the weak groups versus an accumulation of uninhabited properties to be rented by banks and financial companies.
This country has created a sleeping humanity. What role do bodies play in your practices and research? It is evident that at this moment bodies are coming at us. We are no longer allowed – and I think it’s going to be worse – to try not to see them. They’re everywhere on the street like the sea.
I agree, what you have described over the past few weeks has become particularly relevant. The situation we are experiencing with the anti Covid-19 measures has made us all “incapable of sociality”, depriving us of the closeness of the bodies to which we were accustomed. We can be healthy, asymptomatic, but we are all affected by a condition of inability that until recently only affected the weak and sick. Now this state – being temporarily out of play – is common. I would like to think that this distance – which can only make us suffer – allowed us to see our daily lives differently. We’re all losers right now.
When you started the MACRO Asilo programming, even in relation to homeless heroines, did you think about the bodies?
Of course, in several directions. Meanwhile, the idea was precisely to think of a space that would accommodate the bodies and their relationships, putting them at the center. A museum as an open space capable of enabling all those who have passed through it, an urban facility where art and society could meet, compare, grow and transform. A hospitable museum in which bodies and identities had the opportunity to tell their stories, emerging from a situation of isolation and weakness.
You talked about weakness. The project conceived by Virginia Ruth Cerqua and Irene Pittatore tries to deconstruct precisely that idea of weakness imposed by a backward but still present institutional model that often places ‘the weak’ in a single peripheral existential context. A rigid grid: either inside or outside. In this regard, I’d like to talk about the idea of periphery and peripherality. And by peripherality I mean practices that develop in a non-linear way, actions and contexts that are not standardized but that can trigger alternative scenarios and models.
Periphery is a word that I have been wondering about for a long time: we are about to inaugurate a project that I wanted to call “museo delle periferie” (museum of peripheries), knowing that “periphery” is a complex term that must be approached with caution. We can definitely say that Tor Bella Monaca in Rome, the area that will house the museum, is a periphery. But if we try to see what kind of energies and ideas its population can trigger, we can also be surprised and understand how that housing model – spaces, times, sociality – does not correspond to the rigid and stereotypical definition of periphery that we had originally thought of. Experiences like the one we triggered in Metropoliz (1), an idea of a melting-pot city, not without contradictions, but active and imaginative, have greater possibilities in the “periphery”, but can speak to the entire city and even, as happened, become a model for institutional museums and for a different idea of inhabiting the metropolis. Rif is the museum on the periphery of Tor Bella Monaca. This name in itself proposes the idea of a refoundation of the city, widening the perimeter of the furrow traced by Romulus including also Remo’s progeny.
In this marginality, what spaces does the imagination have?
In his studies, Marc Augè replaced the dichotomy “places/non-places” with “city world/world city”, a definition that in my opinion is too dual, but which reminded us that even in the globalized world cracks and vitality are possible. To inhabit the cracks and the interstitial zones is not an ideological choice, but a pragmatic one, it is about staying where new things can be born, where you can experience something new. Small ecological niches that can offer alternatives to monoculture.
Those who have an unregulated life model are always placed in a state of peripherality. In your opinion, what is happening in these worlds?
Once again, it is important to underline that I am talking about a wide range of unrecognised, marginalised urban subjects. Well, going back to your previous observation, I don’t recognize them as fragile subjects. Of course, they live in daily economic fragility but at the same time they have not surrendered to the world that would like them dead. Zygmunt Bauman called them ‘discarded lives’: the homeless, just like the men and women dying in the Mediterranean. Yet some of these existences succeed in rebelling and activating forms of resistance that have to imply the possibility of a different, imagined but also practiced world, which is the hardest thing to do. These are situations that have shaped concrete utopias that I am not interested in mythicizing, but in understanding all their complexity. Precisely in these complexities, collective spaces have been built and in some cases, like Metropoliz or homeless heroines, these spaces have also been able to host art. So if we change position, this weakness is also an energy, a vitality, although – at this moment – fatigued, often on the minimum threshold of survival.
In these situations, what is the role of women?
In these practices, women are so powerful, it’s women who manage to propose themselves as teachers, political activists, in a series of urgent activities. They’re mediators, moms and workers, all together.
What about the role of young people?
I don’t want these to seem like trivial questions to you, I’m interested in understanding how much in a state of peripherality there are transformative and generative practices also in relation to genres and generations. Women and young people are strong, resilient figures, they have a transformative force in themselves. We started with children (the first work made by MAAM was the playroom, called “stanza dei giochi”), knowing that they represent the future of Metropoliz.
May 2020 – Interview by Lisa Parola
Nato nel 1966, è antropologo, giornalista, filmmaker e fotografo, oltre che autore di libri e contributi scientifici. Ideatore e curatore del MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia e della -1 art gallery della Casa dell’Architettura di Roma.
English
Bborn in 1966, Giorgio de Finis is an anthropologist, journalist, filmmaker and photographer, as well as the author of books and scientific contributions. Creator and curator of the MAAM Museum of the Other and Elsewhere in Metropoliz_città mestizo and of the -1 art gallery of the Casa dell’Architettura in Rome.